Il branco di TTT

Ho fallito e ne sento il peso. Solo ora capisco che il branco ha regole proprie, non è la somma delle persone. Il bravo ragazzo è fagocitato come in buco nero; il delinquente sguazza onnipotente. È la caricatura della famiglia, l’alternativa malata, la fuga dalla propria libertà. Il capo è il più violento. Li ho avuti in parrocchia, ragazzi in branco dalla Rustica a Tor Tre Teste, a fare chiasso, infastidire ragazze, provocare adulti; nascosto tra loro il capo, un adolescente con un rotolo di banconote in tasca. Le ragazze sono di meno, ma controllano tutti.

Mi hanno ascoltato finché sono stato per loro una curiosità. Niente musica, niente partita di calcio: richiedono disciplina; meglio sigarette, canne e pomiciate: sono soddisfazioni più immediate. Non hanno nomi, non te li vogliono dare, o te ne danno di falsi ridendo; forti della loro minore età, sono pronti a registrare col cellulare per denunciarti e a testimoniare che li hai strattonati, se vogliono. Siamo esposti a denuncia secondo il loro arbitrio.

I carabinieri sono disponibili, vengono a prendere qualche nome, ma null’altro possono fare. E infatti vengono una sola volta. Due bravi volontari non bastano. Sono solo.

Spero nei loro genitori. E in effetti due genitori li incontro: uno, gentile, chiede scusa per il figlio, ma il branco è più forte; un altro neanche mi guarda: è venuto a prendere il figlio in auto; gli dico che il suo comportamento non è molto gradito in parrocchia e lui si volge al figlio e domanda: “e allora che ci vieni a fare?”, sgasa e se ne va. Sono impotente.

Un poliziotto con sincera apprensione mi chiede: “ma perché li ha fatti entrare?” Come posso spiegare che non posso mandarli via, che anche per loro sono prete? Anche se vogliono denunciarmi, anche se hanno coltellini con cui hanno tagliato un quadro sacro e scolpita una bestemmia sul portoncino parrocchiale.

Ho parlato con il cuore in mano al branco, e il branco non ha un cuore. Avrei dovuto spezzettare il branco, perché allora avrei parlato a dei ragazzi. Ci ho provato, ma ho sbagliato, perché ho chiesto a uno di non stare coi peggiori e la risposta è stata tagliente: “non sono un infame, io”. Non li ho cacciati, ma ho preteso di iscriverli a qualche attività e non hanno accettato. Ho sentito il vuoto, e la voce di persone che non si erano mossi prima, ma adesso sapevano cosa si doveva fare.

Ora stanno sotto i balconi di una via non distante. Suscitano paura e fastidio. Non puoi proteggerti, non puoi proteggerli. Ci vorrebbe una comunità unita, un quartiere concorde, in cui i figli di ciascuno siano i “nostri” figli. Non ci conosciamo e non ci vogliamo prendere cura degli altri, ed è così che nascono i branchi.

Sto mettendo su una squadra. Non so quanti aderiranno, ma non voglio essere impreparato quando un altro branco verrà a ringhiare in parrocchia.

Don Domenico Vitulli, parroco a “S. Tommaso d’Aquino”

Articolo apparso su “AbitareA Roma” – 12 febbraio 2022

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